Come comunicare la diagnosi ad un familiare? Il ruolo del caregiver comunicatore
In Rubriche - Psicologia&Oncologia
Come comunicare la diagnosi ad un familiare? Il ruolo del caregiver comunicatore
Negli articoli precedenti ho già affrontato l'argomento diagnosi, ho scritto di cosa sia il paziente che il familiare provano e sentono quando ricevono la diagnosi di TUMORE; ma quando questo compito spetta ad un familiare, come ci si deve comportare? Cosa prova?
Spesso crediamo che il modo migliore di proteggere e prenderci cura delle persone care è quello di nascondergli la dolorosa verità, ma non è così, la persona malata ha diritto di sapere cosa succede all'interno del suo corpo (salvo casi particolari) perché solo così può trovare la forza e le strategie di coping per reagire.
Secondo me dire la verità è sempre la cosa migliore, anche perché il caregiver può trovare la strategia comunicativa più adatta alla persona e alla situazione, perché comunque prima o poi il paziente verrebbe a conoscenza della realtà e magari in maniera brusca e sicuramente vivrebbe peggio la notizia di diagnosi.
Ovviamente il paziente non sarà felice di ascoltare la diagnosi, sarà sconfortato, un po' depresso, ma ci sarà il caregiver e tutta la sua "rete affettiva di supporto" a sostenerlo.
Spesso gli spettri che si nascondono nella mente del malato oncologico, che magari ancora non sa di esserlo, o magari aspetta risposta di esiti di indagini strumentali o interventi chirurgici, sono più deleteri ed angoscianti della "cruda verità".
Il paziente spesso è più propenso ad accettare la realtà e riesce a reagire meglio di chi gli sta accanto, riesce a trovare le strategie di coping adeguate per rialzarsi, combattere contro la malattia e riorganizzare la sua nuova vita.
È importante che il familiare che si prende la responsabilità (spesso viene scelto dagli altri familiari) di comunicare la diagnosi sia preparato a contenerlo, a soffrire insieme a lui, ad esternargli la sua empatia (spero proprio che il caregiver comunicatore sia un soggetto empatico), a rispondere ad ogni sua domanda.
Non deve sminuire la malattia, non deve dire al paziente che sa cosa prova, non deve dirgli che tutto ormai è passato, ma deve fargli sentire il suo affetto, la sua empatia, il suo sostegno, il suo contatto fisico, deve cercare di fargli vedere il lato positivo senza nascondere il lato negativo.
Deve dirgli che non può sapere cosa lui sta provando ma che può sentire la sua sofferenza e che sarà lì accanto a lui, pronto a sostenerlo ed aiutarlo durante le giornate peggiori, in attesa che arrivino quelle migliori.
Il "caregiver comunicatore" della diagnosi, ha il compito di informarsi bene su come cambierà la vita del malato, se verrà alterata la sua quotidianità, la sua autonomia, se cambierà il suo modo di alimentarsi, perché ovviamente egli vorrà sapere tutte queste cose.
Il caregiver dovrebbe cercare di spostare le attenzioni ed il pensiero del paziente oncologico sui punti di forza della sua vita, questo potrebbe aiutare il malato (ed anche il caregivers) a ridurre l'ansia.
L'essere vivo, l'avere una famiglia, magari figli o nipoti, l'avere degli amici ecc... Ognuno di noi ha dei punti di forza differenti e sarà compito del caregiver e della rete affettiva di sostegno riconoscere quali sono e puntare su essi.
Oggi ci sono a disposizione nuove tecniche e farmaci che possono aiutare il paziente oncologico ad avere una buona qualità di vita, a sopportare meglio le terapie (chemio/radio), e questo aiuta anche chi gli sta accanto.
Spero di aver dato giusti consigli (sottolineo consigli da adattare ad ogni singolo caso), per chi si accinge a dover essere il "caregiver comunicatore", in quanto capisco che questo scomodo ruolo fa andare in "tilt" e fino all'ultimo la persona è combattuta su quale sia la cosa più giusta per il proprio caro.
Se all'interno dell'ospedale c'è un servizio di psicologia, farsi aiutare durante questo particolare momento potrebbe essere utile sia per il caregiver che per il paziente.
Bisogna capire quali sono i nostri limiti, e se comunicare una diagnosi di TUMORE arreca troppa ansia, sofferenza o altro è giusto dividere il compito con altri componenti della “rete affettiva di sostegno” e farsi aiutare da uno psicologo.
Spesso crediamo che il modo migliore di proteggere e prenderci cura delle persone care è quello di nascondergli la dolorosa verità, ma non è così, la persona malata ha diritto di sapere cosa succede all'interno del suo corpo (salvo casi particolari) perché solo così può trovare la forza e le strategie di coping per reagire.
Secondo me dire la verità è sempre la cosa migliore, anche perché il caregiver può trovare la strategia comunicativa più adatta alla persona e alla situazione, perché comunque prima o poi il paziente verrebbe a conoscenza della realtà e magari in maniera brusca e sicuramente vivrebbe peggio la notizia di diagnosi.
Ovviamente il paziente non sarà felice di ascoltare la diagnosi, sarà sconfortato, un po' depresso, ma ci sarà il caregiver e tutta la sua "rete affettiva di supporto" a sostenerlo.
Spesso gli spettri che si nascondono nella mente del malato oncologico, che magari ancora non sa di esserlo, o magari aspetta risposta di esiti di indagini strumentali o interventi chirurgici, sono più deleteri ed angoscianti della "cruda verità".
Il paziente spesso è più propenso ad accettare la realtà e riesce a reagire meglio di chi gli sta accanto, riesce a trovare le strategie di coping adeguate per rialzarsi, combattere contro la malattia e riorganizzare la sua nuova vita.
È importante che il familiare che si prende la responsabilità (spesso viene scelto dagli altri familiari) di comunicare la diagnosi sia preparato a contenerlo, a soffrire insieme a lui, ad esternargli la sua empatia (spero proprio che il caregiver comunicatore sia un soggetto empatico), a rispondere ad ogni sua domanda.
Non deve sminuire la malattia, non deve dire al paziente che sa cosa prova, non deve dirgli che tutto ormai è passato, ma deve fargli sentire il suo affetto, la sua empatia, il suo sostegno, il suo contatto fisico, deve cercare di fargli vedere il lato positivo senza nascondere il lato negativo.
Deve dirgli che non può sapere cosa lui sta provando ma che può sentire la sua sofferenza e che sarà lì accanto a lui, pronto a sostenerlo ed aiutarlo durante le giornate peggiori, in attesa che arrivino quelle migliori.
Il "caregiver comunicatore" della diagnosi, ha il compito di informarsi bene su come cambierà la vita del malato, se verrà alterata la sua quotidianità, la sua autonomia, se cambierà il suo modo di alimentarsi, perché ovviamente egli vorrà sapere tutte queste cose.
Il caregiver dovrebbe cercare di spostare le attenzioni ed il pensiero del paziente oncologico sui punti di forza della sua vita, questo potrebbe aiutare il malato (ed anche il caregivers) a ridurre l'ansia.
L'essere vivo, l'avere una famiglia, magari figli o nipoti, l'avere degli amici ecc... Ognuno di noi ha dei punti di forza differenti e sarà compito del caregiver e della rete affettiva di sostegno riconoscere quali sono e puntare su essi.
Oggi ci sono a disposizione nuove tecniche e farmaci che possono aiutare il paziente oncologico ad avere una buona qualità di vita, a sopportare meglio le terapie (chemio/radio), e questo aiuta anche chi gli sta accanto.
Spero di aver dato giusti consigli (sottolineo consigli da adattare ad ogni singolo caso), per chi si accinge a dover essere il "caregiver comunicatore", in quanto capisco che questo scomodo ruolo fa andare in "tilt" e fino all'ultimo la persona è combattuta su quale sia la cosa più giusta per il proprio caro.
Se all'interno dell'ospedale c'è un servizio di psicologia, farsi aiutare durante questo particolare momento potrebbe essere utile sia per il caregiver che per il paziente.
Bisogna capire quali sono i nostri limiti, e se comunicare una diagnosi di TUMORE arreca troppa ansia, sofferenza o altro è giusto dividere il compito con altri componenti della “rete affettiva di sostegno” e farsi aiutare da uno psicologo.
Psicologia&Oncologia: La rubrica “Psicologia&Oncologia” vuole offrire un sostegno “virtuale” rispondendo a richieste d’aiuto, domande e paure, proponendo informazioni, consigli, esperienze e dati clinici. L’obiettivo che si propone è cercare di migliorare la qualità della vita del malato oncologico riducendo le problematiche psico-sociali connesse ai vari momenti del cammino evolutivo del “percorso oncologico”, sia a livello individuale, familiare e sociale.
Dai dati emersi da recenti ricerche "un malato di cancro su tre ha bisogno di un sostegno psicologico e si riscontra come il problema della qualità della vita non riguarda solo i pazienti, ma anche i caregivers, cioè coloro che li assistono, e che possono andare incontro a una serie di disturbi da stress e a forme di depressione" [Federazione Italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia – Favo].
Questa rubrica non vuole sostituirsi al percorso terapeutico tradizionale sia individuale che di gruppo, che ritengo fondamentale durante un percorso oncologico. La rubrica si pone come ponte di collegamento tra il malato oncologico (anche famiglia, familiari, ecc..) e la consapevolezza di affrontare un percorso terapeutico al fine di sentirsi accolti, sostenuti ed accompagnati durante questo cammino. Questa rubrica serve anche per sfatare due tabù: 1) Di tumore non si deve parlare; 2) Chi segue un percorso terapeutico è “folle”, io sono solo un malato oncologico e non mentale e quindi no ne ho bisogno.
Dai dati emersi da recenti ricerche "un malato di cancro su tre ha bisogno di un sostegno psicologico e si riscontra come il problema della qualità della vita non riguarda solo i pazienti, ma anche i caregivers, cioè coloro che li assistono, e che possono andare incontro a una serie di disturbi da stress e a forme di depressione" [Federazione Italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia – Favo].
Questa rubrica non vuole sostituirsi al percorso terapeutico tradizionale sia individuale che di gruppo, che ritengo fondamentale durante un percorso oncologico. La rubrica si pone come ponte di collegamento tra il malato oncologico (anche famiglia, familiari, ecc..) e la consapevolezza di affrontare un percorso terapeutico al fine di sentirsi accolti, sostenuti ed accompagnati durante questo cammino. Questa rubrica serve anche per sfatare due tabù: 1) Di tumore non si deve parlare; 2) Chi segue un percorso terapeutico è “folle”, io sono solo un malato oncologico e non mentale e quindi no ne ho bisogno.
Eleonora Marsala è una psicologa. Negli ultimi anni si è formata sul campo (e sulla sua pelle), in psiconcologia. Non attraverso corsi o libri di testo, ma all’interno dei reparti oncologici, lavorando su se stessa e con gli altri “colleghi di patologia”.
Dal 2009 collabora con alcune Associazioni ed Enti di Formazione Professionale prendendo parte a ricerche scientifiche, progettazione, valutazione, monitoraggio, orientamento all’interno di progetti e Avvisi finanziati dalla Regione Sicilia e dall’Unione Europea.
Abilitata all’uso professionale del “Metodo Ege” per la valutazione e quantificazione del danno da Mobbing, presso PRIMA (Associazione Italiana contro il Mobbing e lo Stress psicosociale) di Bologna. Nel 2012 componente del Gruppo di lavoro "Psicologia del lavoro e delle organizzazioni" dell'Ordine degli Psicologi della Regione della Sicilia.
Scrive anche sul suo Blog "La ragazza con la chemio nella borsetta" che è a tutt'oggi molto seguito.
Dal 2009 collabora con alcune Associazioni ed Enti di Formazione Professionale prendendo parte a ricerche scientifiche, progettazione, valutazione, monitoraggio, orientamento all’interno di progetti e Avvisi finanziati dalla Regione Sicilia e dall’Unione Europea.
Abilitata all’uso professionale del “Metodo Ege” per la valutazione e quantificazione del danno da Mobbing, presso PRIMA (Associazione Italiana contro il Mobbing e lo Stress psicosociale) di Bologna. Nel 2012 componente del Gruppo di lavoro "Psicologia del lavoro e delle organizzazioni" dell'Ordine degli Psicologi della Regione della Sicilia.
Scrive anche sul suo Blog "La ragazza con la chemio nella borsetta" che è a tutt'oggi molto seguito.
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